Volgere al femminile la neutralità delle cariche pubbliche è una decisione sicuramente incostituzionale – di Massimo Sgrelli

Volgere al femminile la neutralità delle cariche pubbliche è una decisione sicuramente incostituzionale – di Massimo Sgrelli



Dissente dalla Boldrini l’ex capo del cerimoniale della Presidenza del Consiglio dei ministri.

L’Accademia della Crusca, custode della verità nazionale in materia linguistica, ha confermato la possibilità di declinare al femminile le cariche pubbliche se coperte da donne. Si può dire ministra, sindaca, ecc. Ma è una decisione istituzionalmente non corretta e monca. Anche Giorgio Napolitano, presidente emerito della Repubblica, ha espresso la sua contrarietà a questo parere. L’Accademia non ha considerato che tale regola viola la neutralità delle definizioni disposte dalla legge. Ogni vocabolo ha una propria desinenza storica, maschile, femminile, che non connota una mascolinità o una femminilità di genere. Quindi una desinenza linguistica di una qualifica professionale o di una carica non si collega necessariamente al genere (uomo o donna) di chi la ricopre. Affermare l’opposto, produce effetti dannosi e lesivi della dignità della donna, perché volgere al femminile le cariche pubbliche con desinenza maschile appare un accomodamento sopravvenuto, teso a sottolineare che la carica è ricoperta da una donna, quasi fosse un evento raro se non anomalo.
Sostenere il principio che la definizione della carica deve essere attagliata al genere di chi la ricopre obbliga perfino ad indagare aspetti molto personali, come l’orientamento sessuale del soggetto, che potrebbe non corrispondere con le risultanze anagrafiche. In questo polverone non capirebbe nulla il cittadino, colui al quale quel titolare o quella carica deve garantire il proprio servizio.
Inoltre ci sono rilevanti aspetti giuridici che non possono essere trascurati. A partire dalla Costituzione: all’articolo 3 (quello dell’eguaglianza, il più invocato innanzi alla Corte Costituzionale) dichiara la parità di genere. Ciascuno ha libero accesso a cariche e impieghi pubblici senza distinzione fra uomini e donne. Per cui non si può avvalorare alcuna distinzione di genere nella qualificazione delle cariche, fondata sulla personalità di chi la ricopre. La Costituzione chiede solo di essere applicata e non essere integrata in modo creativo e personalistico. Insomma, non è possibile introdurre specifiche per sottolineare il genere di chi ricopre una carica pubblica, perché la Costituzione ha annullato, a monte, questa possibilità, affermando, appunto, l’eguaglianza generale.
Chi invoca tale distinzione, invece, antepone aspetti personalistici a quelli istituzionali, che sottolineano la natura del soggetto titolare. Si palesa più attento alla propria persona che al proprio ruolo e carica. Ma ciò è incostituzionale. Il cittadino non è interessato a sapere se è uomo o se è donna chi emetterà una sentenza, chi sottoscriverà una concessione, ecc.
Sono personalismi non invocati dall’ordinamento, il quale pretende che gli aspetti privati di chi esercita funzioni pubbliche rimangano accantonati. Non solo. Una decisione della Sindaca è un provvedimento amministrativo impugnabile, visto che la qualifica di Sindaca non è prevista dal nostro ordinamento e dalla legge.
Le sanatorie adottate per tradurre al femminile le cariche con desinenza maschile sono inoltre illegittime perché incostituzionali: il rango della disposizione non ha livello normativo tale da incidere su fonti legislative e, poi, non contengono la possibilità opposta (di voltura al maschile delle cariche con desinenza femminile).
L’Accademia della Crusca si è invece espressa in senso positivo. Ma gli esperti di cerimoniale e di formalità istituzionali hanno rilevato che essa ha competenza sul linguaggio letterario, giornalistico, sui vocaboli e sulla terminologia correnti. Ma non ne ha alcuna sull’idioma ufficiale e legale, determinato esclusivamente dalla legge. Il suo parere, pertanto, non vale nell’espressione istituzionale e nella titolazione ufficiale delle cariche pubbliche, che devono rimanere enunciate nella loro dizione formale, riconosciuta nelle disposizioni, che ha valore neutrale e indistinto essendo ogni carica ricopribile da uomini o donne. Dietro l’angolo c’è pure la Corte dei Conti ad attendere che si faccia stampare carta intestata con dizioni non ufficiali per imputare il danno erariale della spesa.
Molte donne non sanno rinunciare ad affermare la propria personalità di genere anche dove non è consentito, non sapendo distinguere la terminologia letteraria e giornalistica (dove si può) da quella istituzionale (dove non si può), e molti uomini non vogliono opporsi a richieste femministe per non apparire arretrati. E, quindi, alla fine di questa paradossale diatriba il colpevole è il… politically correct.